Un innamorato ad una festa

Estratto del capitolo 14

Capita spesso che momenti rivelatori della nostra vita si manifestino in maniera totalmente inaspettata. Jonathan odiava le feste, le odiava principalmente perché non riusciva a tollerare l’idea della fuga dal quotidiano, della pausa dal vivere. Jonathan, malgrado i suoi ingenti sforzi a riguardo, era un idealista. C’era la luna, grande e spavalda in quel cielo non illuminato, notturno. Tutti gli idealisti in una notte illuminata dal latte lunare diventano, investiti da quella sua sensualità surreale, romantici e non fu diverso per il maximo idealista in questione. Era una notte speciale, una notte finale, una di quelle notti nelle quali siamo estremamente attivi, pronti a cogliere ogni dettaglio, ogni flessione della nostra esistenza, perché nelle notti che seguono un grande mutamento si sente naturalmente il bisogno di aggrapparsi al presente, come un naufrago che si stringe forte alla scialuppa alla vista di un’onda monumentale. Così ogni sensazione, ogni emozione, ogni piccola semplicità, diviene magistrale e anche noi, in quella sera, siamo magistrali. Fu in questa delicata situazione che Jonathan incontrò Elen quella sera, a una festa, in una sera d’addio – nessun romantico chiederebbe ambientazione migliore – la scorse in lontananza, prima; un preludio. Un dorato spento, quasi cinereo, si riversava su sé stesso come una spirale senza fine, avvolgendo nel suo vortice un viso che risaltava e non impallidiva tra quella folta cascata dorata. I quadri migliori hanno cornici dorate. Fattezze robuste, forti, di chi non ama la pigrizia e rigetta ogni vigliaccheria dell’anima e del corpo. Ma, come tutti i preludi, ci lasciano solamente un enorme voglia di sentir il seguito, di scoprire il trucco, lasciandoci persi in un’anima intorpidita. Spesso nei momenti in cui si è – o ci si sente – esposti si indossa una maschera, difatti lo insegnano Pirandello e Wilde, e nel godersi il suo stesso torpore Jonathan lasciava il suo corpo animarsi autonomamente, automa-mente. Un gioco di sguardi, che forse esisteva solamente per lui ma non importava, non importava più. Jonathan era innamorato, la sua anima si era affacciata e aveva deciso che valeva la pena rischiare un raffreddore ma uscire dalla sua tana, dal suo corpo, per andare a cercare l’oggetto della sua curiosità. Questo credo sia l’innamoramento, la volontà dell’anima di cercare. Di questo modo Jonathan, nell’aprire il sigillo dell’anima, aveva spalancato la porta anche a tutti i suoi dolori, e le sue pene da tempo esiliate da quel quieto vivere. Quelle pene che a una persona comune non sono concesse, quelle pene che sono proprie solo di chi abbandona la strada battuta del proprio “Destino” e si avventura nella foresta della vita: le pene dell’anima. Dunque, avviene qui una confusione, poiché l’uomo istintivamente si affida passivamente ai sensi, una persona comune confonde nel desiderio per l’amata, confonde con l’innamoramento, tutte le altre sensazioni ermetiche che con questa si presentano, senza però comprendere che le cause sono differenti. Ora Jonathan sapeva bene tutto questo, ma lo sapeva ad un livello razionale, così risultava che il suo raziocinio era solamente un genitore noioso che ammoniva, austero, il proprio figlio, senza però sapere che l’anima non ascolta mai. Perso in quel turbinio d’emozioni si slanciava avanti tastando la notte, in quel misto crogiolo d’emozioni resuscitate. Jonathan non era felice, non lo era affatto, ma era vivo. L’anima, che rischiava d’affogare in quel mare immenso, torbido di quotidianità, era risorta e aveva inalato un enorme respiro di quelli che ricordano i primi respiri dei neonati, respiri in cui si percepisce a pelle la vita. La inseguì, la seguì di sfuggita, in un ingenuo gioco che vede alternarsi continuamente preda e predatore, amato e amante. Come due comete che si attraggono, a tutta velocità sembrano guizzare l’una contro l’altra e poi, d’improvviso, si sfiorano accanto allontanandosi a quella stessa velocità; gravata dalla consapevolezza del perduto. Si discusse, si parlò, tutta la notte. Sembrava un duello che ad un estraneo sarebbe forse parso spietato, forse insensato, ma che nascondeva tutto l’eros che due leoni posseggono nel mordersi vicendevolmente. Fu sul più bello però che Jonathan vide sé stesso in contrasto con ciò che viveva. Si ricordò di avere una vita, si ricordò di avere un passato, e di dover vivere un futuro. D’improvviso riaffiorarono catene, catene vincolanti al nostro “destino” che lo trascinavano via da lei, via dal suo scoglio. Nessun naufrago vuole mai lasciare la trave che il mare misericordioso ha lui porto, ma che poi tanto malignamente viene a chiedergli indietro. Quelle catene lo trascinavano via, lo domavano. Avrebbe voluto ribellarsi, e crede anche che fosse giusto, ma si può forse ribellarsi al proprio “destino”? L’aratro ricade sempre, per sua natura, nel solco già tracciato e non senza sforzo del contadino e del bue si può far mutare lui parere. Quella forza ora mancava lui, e, inerme, come un pigro gigante, il suo destino lo trascinava, inesorabile. Avvenne così che lui l’abbandonò, si rifugiò in sé stesso e decise di seguire la via dei vili, che il suo intelletto spacciava lui per la scelta più coraggiosa, tale era il suo indoramento! La vedeva svanire, ma vedeva anche il suo corpo comportarsi normalmente, incurante. Ah! Quanto avrebbe voluto schiaffeggiar sé stesso, si sarebbe di certo beffato di un simile codardo, ma non vi è più grande miseria che beffarsi di sé stessi quando si insegue il proprio fallimento. Lei camminava, senza voltarsi, vedeva quella ricchezza immane sfuggirgli, fuggirgli, fuggire. Forse lei aveva capito, aveva coltro quella sua miseria. Come perdonarsi una simile viltà? Se non questo, quali moti dovrebbero sradicare gli alberi nelle nostre anime? Quali venti guidarci? Quali lumi mostrarci il cammino? Un uomo, un ragazzo, solo, nella notte… Avrebbe voluto correrle dietro. Fermarla. Urlarle. “DElento mondo e dElento tutto! Via, nelle pieghe di questa notte fuggiamo dalle nostre meschinità. Cavalieri notturni che sfidan se stessi incuranti delle miserie che il giorno loro potrà riservare. Sii mia, libera la mia anima sì che io possa liberarti il mio amore.” Questo avrebbe voluto gridarle. Ma eran pensieri vuoti, pensieri di un romantico idealista. Lei era andata, ed era andata per sempre. Il giorno seguente si svegliò all’alba. Le quattro del mattino non erano poi gran cosa, aveva dormito quell’ora che serviva lui non per riposare, ma per accettare il suo fallimento. Non tanto per aver perso lei, ma per non averle almeno gridato il suo amore. Le avrebbe scritto? Certo. L’avrebbe cercata? Forse. Ma vacue parole di certo non hanno mai mutato spirito alcuno. La verità è che Jonathan aveva tradito lei e aveva tradito sé stesso. L’uomo a forza di vivere in propria compagnia finisce per non credersi più. Avrebbe voluto poter accettare le proprie scuse, avrebbe voluto dimenticare, pregare e implorare, ma troppo bene si conosceva per non potersi condElenre. Il viaggio proseguiva, con lui assente, con la mente accanto a lei, su quel giaciglio, quel bocciolo che non aveva osato sfiorare.

A volte il caso regala, inoltre, rari momenti per poter rider di sé stessi e della propria magra sorte; fu infatti sulla strada del ritorno che la combriccola superò casualmente una pensione che prendeva questo nome: “Pensione Elen”. Un caso, probabilmente, ma per un uomo innamorato ogni casualità è un gesto ineccepibile del destino.

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